Pasquasio Diaz Garlon

La servitù si affaccendava tra la penombra della camera del malato e l’ampio patio in cui si affacciavano le camere del piano nobile. In realtà nessuno dei domestici aveva nulla di tanto importante da fare, ma in quel momento triste e solenne ciascuno voleva dimostrare di essere – se non indispensabile – almeno utile e partecipe. Di fatto tutti cercavano di mettersi in mostra agli occhi dei convenuti cercando in qualche modo di sottolineare il loro ruolo e l’importanza del servizio svolto per padrone di casa: quale migliore referenza, nel caso che il loro posto di lavoro non fosse più garantito?
A parte un minimo di inevitabile cinismo, comunque, per la maggior parte di loro quel frenetico quanto improduttivo andirivieni era espressione di un reale sentimento di devozione e – a modo loro – di affetto verso il Conte al quale tanto dovevano.
In quel momento in camera da letto era presente solo il medico personale del Conte, don Vincenzo di Casanova, il quale – dopo aver somministrato qualche intruglio alcolico che a suo parere avrebbe sicuramente rinfrancato, se non il corpo, almeno lo spirito del suo anziano paziente – si guardava attorno come a voler imprimere per l’ultima volta nella memoria i tesori accumulati in quello che fino a pochi mesi prima era stato lo studio di Don Pasquale, ben conscio che non avrebbe avuto più molte altre occasioni per entrare in quella stanza.

Angiolillo Arcuccio - Salterio Diaz Garlon - Vat Lat 3467 F1r

Salterio Diaz Garlon f1r (clicca per ingrandire)

La sua attenzione si soffermò prima sulla parete di fondo, opposta al letto e quasi buia, dove in un’ampia scaffalatura di legno massiccio erano conservati i più pregiati tra i numerosi manoscritti che costituivano la favolosa biblioteca personale di don Pasquale.
Vi riconobbe “l’Arte de lo ben morire”, copiato da Joan Maria Cinico e “traducto in vulgare sermone da Juniano Maio a lo inclito Messer Pasquale castellano dignissimo”, la “Teseide” di Boccaccio il “De natura deorum” di Cicerone, il “Liber Psalmorum”, l'”Historia plantarum” di Teofrasto…
Molti di quegli antichi volumi, per disposizione testamentaria, erano già destinati a rimpinguare la biblioteca reale dopo le recenti devastazioni provocate da Carlo VIII che – pur senza essere riuscito a modificare i destini del Regno durante la sua sanguinosa quanto inutile spedizione – aveva frugato a piene mani tra i tesori aragonesi, tornandosene in patria anche con gran parte dei preziosi manoscritti appartenuti alla famiglia Trastamara.
Certo il Conte non avrebbe immaginato che anche il suo piccolo tesoro di carta di lì a poco avrebbe preso la via della Francia al seguito di Re Federico, in esilio volontario pur di salvare il Regno dalle fameliche mire dello zio Ferdinando il Cattolico.

Girandosi verso il letto del malato, lo sguardo di don Vincenzo si posò sulla miniatura che impreziosiva la pagina di un volume rimasto aperto su di una panca e la cui lettura era stata evidentemente interrotta dalla crisi che aveva richiesto la sua presenza. Il medico strizzò leggermente gli occhi per capire meglio di cosa si trattasse e riconobbe subito il libro di preghiere: nella miniatura della prima pagina, seduto davanti l’albero della vita piantato piantato presso le acque correnti, vi è raffigurato il profeta Davide mentre compone il primo salmo il cui incipit “Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum…” risalta in un riquadro posto immediatamente sotto l’illustrazione. La cornice fiorita in cui putti, fiori e animali reali e fantastici sembravano prendere vita era un segno distintivo della bottega dei Rapicano, i miniatori che avevano illustrato una innumerevole quantità di manoscritti per la biblioteca reale. Tuttavia, osservando più attentamente il tondo sottostante in cui era raffigurato il giovane Davide che uccide il gigante Golia, don Vincenzo vi riconobbe la mano del Maestro Arcuccio: la medesima scena, quasi identica se la memoria non lo tradiva, l’aveva potuta ammirare anni addietro nel libro di preghiere di Re Ferrante; un privilegio concesso a pochi, di cui aveva potuto beneficiare grazie alla sua conoscenza personale con il Duca di Calabria.

Il fruscio delle pagine appena smosse dalle delicate mani di don Vincenzo ebbe l’effetto di ridestare brevemente il malato dal suo torpore. Il Conte dovette rendersi conto in un attimo di lucidità dell’interesse del medico per i suoi volumi, girò la testa e con lo sguardo preoccupato ed un filo di voce pronunziò una sola parola “Pandolfini?
Don Vincenzo comprese subito a cosa si riferisse il vecchio amico, poiché il pegno dei 266 manoscritti della biblioteca reale in cambio di un cospicuo prestito da parte del “mercante florentino habitante in la cità nostra de Napole” era stato oggetto di numerose discussioni ed era diventato un racconto sempre più ricorrente man mano che gli anni passavano e la memoria del Conte, come sempre succede per gli anziani, si concentrava su alcuni episodi fondamentali della sua vita.
Senonché quello che era fondamentale nella vita di Pasquasio Diaz Garlon, a causa dei ruoli ufficiali che aveva ricoperto,  spesso e volentieri lo era stato anche per la storia del Regno! Infatti fu anche grazie a quel prestito di 38000 ducati (versati “liberamente et cum prompto animo” in carlini d’argento, ad un tasso di 10 carlini per ducato) che Ferrante era riuscito a mettere insieme le forze necessarie a scacciare i turchi dalla Puglia.
I soldi – di cui 15.000 erano garantiti dalla consegna al fiorentino dei preziosi manoscritti – erano stati presi in consegna proprio da “lo Magnifico et dilecto nostro consigliere maiordomo et primo guardarobba missere Pasquale Diaz Garlon”, il quale aveva anche controfirmato l’albarano insieme al segretario Petrucci secondo il privilegio concessogli dal Magnanimo, il quale – in punto di morte – aveva disposto che in futuro nessun provvedimento regio sarebbe stato valido se non fosse stato vistato dal Garlon. La volontà espressa dal Sovrano nel suo testamento fu poi rispettata dai successori Ferrante I ed Alfonso II, cosicché gli atti della Cancelleria regia continuarono a lungo a recare il sigillo del Conte o di uno dei sostituti. E tanti e tali furono i documenti da lui siglati, che era diventato sufficiente l’indicazione in calce di “Mossen o Monsser Pasquale” per capire di chi si trattasse!

Salterio Diaz Garlon - Davide uccide Golia

Salterio Diaz Garlon – Davide uccide Golia

Dettaglio di Davide che taglia la testa a Golia nel Salterio di Ferdinando I

Salterio di Ferdinando I – Davide taglia la testa a Golia

 

 

 

 

 

 

 


Don Vincenzo ricordava anche i giorni concitati dell’estate del 1480 quando, con il Duca Alfonso ancora impegnato nella guerra in Toscana, il Conte aveva contribuito a sue spese ad armare un contingente da inviare a Otranto per cercare di bloccare l’avanzata dei turchi guidati dal Pascià “Giacometto”, che avevano già messo a ferro e fuoco la cittadina e facevano scorribande per tutta la regione. Il pericolo era stato grande ma Ferrante era riuscito a portare dalla sua parte un nutrito schieramento, convincendo addirittura il Papa a bandire una vera e propria crociata dopo aver sponsorizzato la pace con Firenze.
E anche in quest’ultimo evento il Conte ci aveva messo del suo: in quelle stesse stanze dove ora si consumavano le sue ultime ore, era stato gradito ospite nel 1479 Lorenzo dei Medici, venuto a Napoli per implorare Ferrante a togliere l’assedio a Firenze. Durante i tre lunghi mesi del suo soggiorno, con i suoi auspici e l’intercessione dell’amico Carafa, Conte di Maddaloni, il miracolo si era compiuto e Ferdinando I aveva deciso di non dare il colpo di grazia alla città del giglio.
E ancora, nel 1482, aveva contribuito a ripianare i debiti della corona acquistando per 12.000 ducati la contea di Alife e i territori attigui di S. Angelo e Dragoni, confiscati al Duca di Sessa – nonché cognato di Ferrante – Marino Marzano dopo il suo tradimento.

Ferrante respinge l'assalto di Marino Marzano alla Torricella - Portone di Castelnuovo

Ferrante respinge l’assalto di Marino Marzano alla Torricella – Portone di Castelnuovo

Quindi gli fu facile rincuorare il malato con una strizzatina d’occhio e ripetendo la frase che durante i giorni in cui aveva frequentato il capezzale del malato aveva sentito pronunciare anche da altri: “Tutto a posto, don Pasquà. Il debito è saldato e il fiorentino ha restituito fino all’ultimo foglio
La risposta del vecchio non si fece attendere; e tuttavia, a differenza di altre volte, in cui il Conte si era limitato a sorridere, questa volta strinse la mano destra a pugno e spingendo l’avambraccio verso il suo interlocutore emise un sonoro “Tiè“, per poi tornare ad immergersi nei suoi imperscrutabili pensieri…
Il medico sorrise, contento dello spirito battagliero che ancora albergava in quel corpicino ossuto; ma avvertendo che la vista si annebbiava e sapendo che da un momento all’altro qualche lacrima sarebbe potuta scorrere sulle guance rugose, si voltò per pudore verso la finestra da cui provenivano i bagliori rossi del sole al tramonto. La aprì per far entrare gli ultimi aliti del caldo mare primaverile, prima dell’arrivo della brezza serale che avrebbe inevitabilmente trascinato con sé gli odori dell’umanità che si accalcava nei vicoli retrostanti il palazzo, poco oltre il giardino rinfrescato dai giochi d’acqua di due ampie fontane.
Sporgendosi un po’ ammirò l’ampio tratto del golfo e della costiera visibili sulla sinistra, con il molo grande in primo piano, mentre il lato destro offriva allo sguardo la collina del Siti Perillos e un tratto di Capri, quasi sdraiata e sonnecchiante sulla linea dell’orizzonte: il resto dell’isola era nascosta dal soggetto principale di quell’impareggiabile quadro, la maestosa costruzione di tufo e piperno, inconfondibile simbolo del dominio regio sulla città.
Infatti il Conte, sentendo arrivare il suo momento, dopo aver chiesto di spostare il letto in quella stanza sull’ala destra del palazzo, lo aveva fatto collocare strategicamente su di un trabicolo di legno in modo che anche da steso e dal fondo della stanza potesse ammirare la parte centrale del panorama occupata dall’intera cortina nord tra le torri Beverella e San Giorgio e dall’ingresso del Castel Nuovo.
Dopo i tanti anni trascorsi come castellano, avendo dimorato lungamente proprio nella torre di S.Giorgio, il Conte non riusciva a fare a meno della vista di quella imponente costruzione; e non bastandogli l’aspetto esteriore, voleva essere informato quotidianamente di tutto quello che succedeva dentro le mura, quasi come se sentisse ancora su di sé la responsabilità del buon andamento di quella complessa macchina.

Posizione originaria del Palazzo Diaz Garlon

Posizione approssimativa del Palazzo Diaz Garlon, all’angolo di Largo delle Corregge (attuale Via Medina)

O forse aveva ancora bisogno di esorcizzare, di scacciare le voci dei fantasmi che tante volte lo avevano tormentato da quella sera in cui con i suoi uomini fece irruzione nella Sala Grande… Nonostante la confessione e l’assoluzione ricevuta quella stessa mattina, il vecchio soldato nei suoi ultimi momenti – con lo sguardo acquoso e assente fisso sulla bandiera che si agitava mollemente in cima alla Beverella – ancora riandava col pensiero a quei caldi giorni dell’Agosto dell’86 che avrebbero cambiato la sua vita e le sorti del Regno; e ancora ne provava vergogna…
Il dubbio lo aveva attanagliato per giorni, da quando Ferrante lo aveva messo a parte del suo piano per liberarsi in un colpo solo del Segretario Antonello Petrucci, del Conte Coppola e dei loro familiari. Sentiva ancora rimbombare la voce autoritaria del suo Re il giorno in cui gli aveva spiegato il da farsi, in presenza di pochissimi intimi: “Questi miei figli hanno troppo sfidato la pazienza del loro sovrano. La misericordia della Corona è e sempre sarà grande verso tutti i suoi sudditi, ma qui è in gioco la sopravvivenza stessa del Regno e noi non permetteremo che chi ha tramato oscuramente insieme ai nemici di Napoli contro la nostra Maestà, possa farla franca; e magari riprovarci tra qualche tempo…”
Poi il tono si era fatto meno solenne e la confidenza tra i due fece sì che Ferrante sciogliesse i suoi pensieri nel linguaggio semplice e diretto del suo popolo, appreso nel corso di certe frequentazioni giovanili nelle bettole intorno ai decumani; ora il Re si rivolgeva all’amico e complice: “Pasca’ mo sta a voi: la mia idea pote funzionà sulo si me date ‘na mano. Avimmo dà l’esempio, ‘na cosa che nun se scorda. – poi, stringendogli il braccio con la mano come a dimostrare che solo di lui si fidava per quel compito – Accà ce vonn’ e pil’ ngopp’ o stommaco!

E Pasquasio Diaz Garlon i peli sullo stomaco li aveva avuti sin dalla gioventù, quando ancora ragazzino aveva lasciato gli agi della sua Daroca per seguire il Magnanimo nelle sua avventure alla conquista del Mediterraneo. Con il coraggio e la spensieratezza che solo un adolescente può avere, aveva combattuto al fianco del suo Re e ne aveva condiviso sia le vittorie che le sconfitte; come nel ’35 a Gaeta dove, giovanissimo, dopo aver ben assolto al compito di accogliere e sfamare i vecchi e i bambini sfollati dalla città messa sotto assedio dai catalani e presi sotto la sua protezione dal Magnanimo, pur avendo la possibilità di fuggire, decise di seguire il destino suo Re sconfitto in mare dai Genovesi intervenuti a difesa del baluardo oramai allo stremo. Poi, come noto, Alfonso riuscì a farsi consegnare nelle mani del Duca di Milano e con le sue doti diplomatiche non solo si garantì la libertà senza pagare riscatto ma addirittura ottenne un’alleanza con il Visconti e il suo supporto materiale nella guerra contro Roi Renée!
Pasquasio rimase al fianco di Alfonso fino all’insediamento sul trono di Napoli e la su fedeltà non passò inosservata: sebbene durante il regno del Magnanimo non ottenne incarichi nell’amministrazione del regno, al contrario dei molti catalani giunti a Napoli nelle fila dell’esercito, nel 1452 avvenne la svolta. Fu nominato infatti Librer con il compito di gestire la biblioteca del giovane Ferdinando, ma di fatto ne divenne uomo di fiducia, confidente e sincero amico. Da allora la sua ascesa fu lenta ma inesorabile…

Blasone di Pasquasio Diaz Garlon - f3v del Salterio Vat Lat 3467

Blasone di Pasquasio Diaz Garlon – f3v del Salterio Vat Lat 3467

Oltre alle prestigiose cariche “fiduciarie” di segretario, guardaroba maggiore, camerlengo, maggiordomo e consigliere, negli anni ottenne anche incarichi amministrativi e di governo in Puglia e Calabria: fu credenziero del porto del Fortore in Capitanata, misuratore del sale e credenziero delle saline e del fondaco di Manfredonia, Doganiere di Foggia e poi ancora governatore di Montalto, Paola e Fuscaldo, senza contare l’incarico come Percettore generale e distributore delle pecunie: in pratica gli era affidata tutta la contabilità del Re e del Regno!
Grazie al prestigio raggiunto sotto il regno di Ferrante potè ingrandire il suo patrimonio e iniziare l’espansione dei possedimenti terrieri. Infine, al termine della crisi di Otranto, il Re per sdebitarsi con il fedele amico firmò l’investitura a Conte di Alife nel Marzo del 1483. Ora, finalmente, anche la famiglia Diaz Garlon poteva figurare nel patriziato del Sedile di Nido e iscriversi alla prestigiosa Confraternita di Santa Marta, nel cui codice è presente a pieno titolo il blasone dei Diaz Garlon (“d’oro alle tre fasce di nero”).

Processo di Antonello Petrucci

Il processo contro Antonello Petrucci, i suoi figli e Francesco Coppola nelle “Cronache” di Melchiorre Ferraiolo

Quindi, quando gli fu chiesto dal suo amato sovrano di compiere un atto sleale verso l’amico Petrucci, col quale aveva condiviso i favori del giovane Ferdinando quando era ancora Duca di Calabria e l’ascesa verso le maggiori cariche del regno, visse per giorni nel tormento: innanzitutto per la paura che una fuga di notizie potesse compromettere l’operazione e che anche lui venisse sospettato di tradimento, e poi perché non era affatto convinto della colpevolezza di tutti coloro che il Re considerava come cospiratori. Ferrante, d’altra parte gli aveva garantito che tutti gli arrestati avrebbero subito un equo processo. Quindi, nonostante gli scrupoli di coscienza, l’adesione alla linea politica del sovrano fu totale e il castellano il 13 Agosto del 1486, durante il banchetto matrimoniale tra Marco Coppola – figlio del Conte di Sarno – e la nipote di Ferrante Maria Piccolomini, non deluse le aspettative del suo Re.
E probabilmente non fu un caso se, poche settimane dopo gli eventi, Ferrante gli garantì una concessione per svolgere un importante commercio di frumento dalla Puglia verso i mercati esteri. Non era la prima volta che attività politica e interessi commerciali si intrecciavano, a volte sovrapponendosi agli interessi privati e ai doveri pubblici dei due…
Ferrante sapeva bene che le ricchezze accumulate dal fedele Conte di Alife grazie alle sue concessioni sarebbero sempre state messe a disposizione della corona in caso di bisogno!
Ora, in punto di morte, tra i ricordi che aiutavano don Pascasio a superare il rimpianto per la morte dell’amico Petrucci, c’erano appunto le tante occasioni in cui sentiva di essersi speso bene per il bene del suo paese adottivo, quel regno che – dopo aver contribuito nel suo piccolo a conquistare – aveva sicuramente aiutato a rendere stabile e grande.

La sua fedeltà, infatti, si estendeva ben oltre l’amicizia con Ferrante, con il quale era praticamente cresciuto essendo di pochi anni più grande: quando questi morì, dopo aver presieduto al rito funebre, si occupò anche dell’investitura di Alfonso II e della “consegna delle chiavi” di Castelnuovo al nuovo sovrano. Durante gli ultimi convulsi anni conseguenti alla discesa di Carlo VIII, il Conte di Alife, sebbene con sempre minori incarichi di governo, aveva mantenuto la sua fedeltà alla corona al punto di seguire il giovane Ferdinando II nel suo ritiro ad Ischia, sebbene avrebbe potuto – come tanti – far buon viso a cattivo gioco e mantenere tutte le sue prerogative anche sotto l’invasore Francese…
Ma a conferma della stima e dell’autorevolezza di cui godeva il vecchio Conte, anche gli ultimi sovrani vollero confermare ai Garlon l’autorità sulla contea di Alife e Federico dette disposizione di elencare con precisione i titoli e i confini delle proprietà del “consiliarii fidelis nostri dilectissimi”.

Don Vincenzo si avvicinò nuovamente al capezzale per dare un’ultima controllata prima di congedarsi, pensando che il Conte dormisse; ma questi, sorprendentemente, gli tese la mano e stringendogli il polso con la poca forza che gli era rimasta quasi sospirò indicando la porta: “Voglio Luce“.
Il medico comprese solo dopo qualche istante che il vecchio non si stava lamentando per il buio ma chiedeva della moglie, Lucente di Chiaromonte, ed ebbe un momento di imbarazzo poiché la nobildonna riposava già da più di 10 anni nella cappella di famiglia dedicata alla Beata Vergine delle Grazie, nella vicina chiesa di S. Maria la Nova.
La vedrete presto” lo rassicurò il medico con una formula che in cuor suo gli sollevava dalla coscienza il peso di dover mentire ad un amico in fin di vita. Ma non ebbe modo di rendersi conto se il Conte avesse compreso: quasi subito la stretta cessò e la mano ricadde sul letto.
Poco dopo il medico uscì dalla stanza sconsolato e un solo sguardo fu sufficiente a Don Ferrante Diaz Garlon per comprendere che ora era lui il capofamiglia, il nuovo Conte di Alife a Sua Maestà piacendo… Il giovane prese da una vicina sedia la fascia con i simboli dell’Ordine della Stola – l’ultimo segno tangibile con cui Re Ferdinando nel ’91 aveva voluto mostrare la sua infinita gratitudine al suo vecchio amico – con cui ornare le spoglie del padre in previsione della cerimonia funebre e si avvicinò alla camera; poi incrociando Don Vincenzo si soffermò: “Darò disposizione per i vostri quattro ducati”.
“Per carità, don Ferrante… Per gli amici non c’è prezzo: l’ho fatto con vero piacere.”
Il Conte però continuava a guardarlo, non sapendo come proseguire, ma il medico comprese subito:
“Vi farò avere al più presto il documento che attesta il decesso: è indispensabile al Signor Re per preparare l’atto di infeudazione” disse accennando un inchino, e poi aggiunse con un sorriso amaro “Sarà uno dei primi atti senza la firma di Mossen Pasquale”.

 

Il sepolcro di Pasquale Diaz Garlon nel chiostro di S. Maria la Nova

Il sepolcro di Pasquale Diaz Garlon, trasferito nel chiostro piccolo di S. Maria la Nova nel 1683

“PASCASIUS GARLON ALIFARUM COMES INSIGNIS INCLITI FERDINANDI
REGIS CONSILIARIUS MAIODOMUSQU AC PRIMUS GUARDAROBA SIBI ADHUC
SUPERSTITI AC LUCENTAE CONIUGI PUDICCISSIMAE AC
DULCISSIMIS NATIS PIE AC RELIGIOSE CONDIDIT ANNO SALV MCCCCLXXXVII KELLENDIS APRILIS”

 

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