Angiolillo Arcuccio, Martirio di S. Sebastiano (1480-1485 circa).
Duomo di Aversa.
Questa imponente tavola è collocata, probabilmente sin dal momento della sua esecuzione sebbene in altra posizione rispetto ad oggi, nel Duomo di Aversa. Si tratta dell’unica opera sicuramente ascrivibile (poiché firmata) al pittore Angiolillo Arcuccio, misconosciuto fino agli anni ’50 quando il prof. Raffaello Causa – partendo proprio dal confronto con questo dipinto – riuscì ad attribuire all’autore un numeroso corpus di opere sparse in Campania, e fino ad allora erroneamente attribuite ad altri autori o del tutto anonime.
Arcuccio non fu certamente un artista di spicco nel panorama del primo rinascimento napoletano: prova ne sia l’assoluta mancanza di riferimenti e citazioni – salvo alcuni importanti documenti rintracciati negli archivi aragonesi e pubblicati da Gaetano Filangieri a fine ‘800, in cui viene citato tra il 1464 e il 1492 – fino agli studi di Causa il quale riuscì a mettere in relazione diretta il dipinto di Aversa (attribuito ad un inesistente Angiolillo Roccaderame fino a quando Gaetano Parente, nel 1857, non ne analizzò la firma riuscendo ad identificarne il nome corretto) con l’Arcuccio citato nelle cedole della tesoreria aragonese. Tuttavia – per quanto se ne conosce oggi – fu particolarmente attivo in un raggio abbastanza vasto intorno a Napoli ed ebbe importanti commesse anche nella capitale, per le chiese di S.Maria la Nova, S.Domenico e San Lorenzo; per non parlare dei decori in Castel Nuovo (di cui purtroppo non ci rimane alcuna traccia) e degli altri impegni di committenza reale citati nelle cedole della tesoreria (risulta ad esempio un “modesto” incarico per la doratura della corona di un busto in marmo di Re Ferrante).
L’abbondanza del corpus attribuitogli e la notevole evoluzione nello stile che si può leggere nelle opere a lui riferibili, in definitiva, sono di grande aiuto per comprendere meglio gli intrecci stilistici e le influenze che operarono nella capitale nella seconda metà del ‘400 e che avevano trasformato Napoli in un fondamentale crocevia per gli scambi artistici tra l’Europa continentale e quella del Sud.
La particolarità di questo dipinto – che, è bene sottolineare, è quasi coevo della Tavola Strozzi con cui condivide alcune significative affinità – consiste nella raffigurazione molto precisa della città di Aversa: vi si leggono bene le mura merlate che si congiungono alla imponente fortezza sullo sfondo, il profilo della Cattedrale con l’originaria cupola, la maestosa porta di accesso su cui troneggia lo stemma aragonese.
Di non secondaria importanza, a mio avviso, è la resa delle più modeste casupole dai tetti rossi e con le piccole aperture lungo le facciate che – per quanto ne sappia – hanno riscontro in area napoletana soltanto con quelle presenti nella ben più nota e celebrata Tavola Strozzi, per la quale lo stesso prof. Causa aveva avanzato l’attribuzione a Colantonio, da considerarsi indubbiamente come uno dei modelli presso cui si formò lo stesso Arcuccio se è vero, come è vero, che già nel 1664 Camillo Tutini attribuiva ad un discepolo di Colantonio la tavola con i Cinque Martiri Francescani in S.Domenico, oggi universalmente riconosciuta come opera di Arcuccio.
Mi fermo qui con questa divagazione in quanto non ho né le competenze né le conoscenze specifiche (di questa tavola conosco solo le riproduzioni fotografiche!) per addentrarmi oltre nelle ipotesi. Però, dal momento che resta aperta la questione dell’attribuzione della Tavola Strozzi, spero che qualche Storico dell’Arte di passaggio voglia approfondire la questione, magari andando ad analizzare anche il modo con cui Arcuccio rende il cielo e la vegetazione non solo e non tanto nelle opere dipinte (in particolare questa e le due tavole della Resurrezione e della Natività a S.Martino) quanto in alcune delle miniature attribuitegli oramai con quasi matematica certezza: si veda – uno per tutti – il foglio 1r del “Psalterium ad usum Fratrum Minorum”, MS Lat. 771 della Bibliotca Nazionale di Francia.
Da un punto di vista formale, troviamo qui una mano piuttosto matura, che ha abbandonato in questa fase il ritmo imposto dalla formazione colantoniana per plasmarsi sulle ricerche plastiche e le intuizioni spaziali di un ben più avanzato Antonello da Messina. Per quanto riguarda la composizione e la resa della profondità, mai l’autore si era spinto così avanti, mentre nella definizione della figura principale siamo anni luce oltre l’omonimo soggetto presente nel trittico con la Madonna e San Bernardino da Siena (originariamente nella Chiesa della Maddalena di Aversa ed oggi visibile nella cappella dell’adiacente complesso dell’ex Ospedale Psichiatrico, il “Reale Morfotrofio” borbonico), già attribuitogli dal Causa: grazie al confronto con il precedente tentativo – risalente alla fine degli anni ’50 – salta agli occhi il gran balzo in avanti fatto nella ricerca della resa dei volumi grazie ad un uso meno “violento” della luce, analogamente a quanto si può rilevare nel Cristo risorto, oggi visibile al Museo di S.Martino, e risalente alla prima metà degli anni ’80.
Per quanto riguarda le figure secondarie, una certa similitudine si può trovare con i soldati caduti ai piedi del sarcofago nella Resurrezione di San Martino, ma meno scontatamente le analogie sembrano convergere anche verso gli sgherri presenti in alcune opere di Francesco Pagano e Pietro Befulco, a dimostrazione di un contatto con l’influsso valenzano-ferrarese a cui lo stesso Arcuccio non potè essere del tutto alieno.
Ancora dal confronto con la tavola di San Martino, oltre alla presenza di una città – questa volta una Gerusalemme fantastica dai tratti marcatamente gotici – sullo sfondo, troviamo forti similitudini nella resa della vegetazione in cui la lumeggiatura presenta ancora i caratteri nervosi e contrastati delle prime opere. Tuttavia la novità in questa tavola è rappresentata dall’attenzione al dettaglio: in primo piano sono raffigurati fiori, farfalle e coccinelle con una accuratezza e precisione che richiamano immediatamente alla mente l’attività di Arcuccio come miniaturista, la cui importanza sta venendo alla luce solo negli ultimi anni e di cui abbiamo accennato varie volte nei nostri articoli sui manoscritti della biblioteca aragonese di Napoli.
Per tali motivi, la datazione riportata nel cartiglio ai piedi del santo(Angelus Arcucio de Neapoli pinxit 1468) è da considerarsi apocrifa, in quanto – più probabilmente e come oramai confermato da numerosi studi – l’opera è da collocarsi nella prima metà dell’ottavo decennio del secolo.
Per approfondimenti:
- R. Causa, “Angiolillo Arcuccio”, in Proporzioni – N.3 (Firenze, 1950)
- G. Toscano, “Matteo Felice: un miniatore al servizio dei re d’Aragona di Napoli”, in Bollettino d’Arte, 1995
- G. Toscano, “I miniatori di corte nella seconda metà del Quattrocento”, in La Biblioteca Reale di Napoli al tempo della dinastia aragonese, 1998
- Mariarosaria Ruggiero, “Angelo Arcuccio. Pittura e miniatura a Napoli nel ‘400”, Di Mauro Editore – Napoli, 2014
- Arcuccio nel “Dizionario Biografico degli Italiani” della Treccani
- Opere di Angiolillo Arcuccio nel catalogo della Fondazione Zeri