Chi abbia la fortuna di poter entrare nell’atrio del palazzo al numero 121 di Via San Biagio dei Librai, di recente riaperto dopo degli opportuni lavori di restauro, potrà ammirare uno dei simboli più antichi e ricchi di storia della città: il “Cavallo Carafa”. La statua in terracotta che vi è esposta oggi è in realtà una copia risalente al 1809, mentre l’originale – in bronzo – è conservato al Museo Archeologico nel cui atrio ha trovato recentemente una più che degna collocazione. Anche la copia, tuttavia, è un bellissimo oggetto che mantiene inalterato il fascino del tempo in cui l’originale attirava nobili e colti visitatori ed era l’orgoglio del palazzo e del suo potente proprietario: il Conte Diomede Carafa.
Ma perché era lì questa enorme testa, alta 175cm ? E da dove arrivava?
In effetti ci sono varie teorie sull’origine di questa scultura: secondo una leggenda – riportata e ritenuta credibile anche dal Celano e dal Sarnelli – si tratterebbe di quel che rimane di una enorme statua equestre di epoca classica – simbolo dei Seggi di Nido e Capuano – fatta realizzare addirittura da Virgilio e originariamente posta nei pressi del tempio di Nettuno, al lato dell’attuale Duomo (Piazza Riario Sforza).
Secondo il Summonte era proprio questa la statua a cui, dopo la conquista della città nel 1253, il Re Corrado IV (secondogenito di Federico II e padre di Corradino) avrebbe imposto il freno e le redini (di cui vi sarebbe ancora traccia nel morso che si intravede all’angolo della bocca) facendo incidere a ricordo della conquista e come monito per la città la frase:
“Hactenus effrenis, Domini nunc paret habenis / Rex domat hunc aequus parthenopensis equum”
(Finora sbrigliato, ora obbedisce alle redini del padrone / Il re partenopeo giusto doma questo cavallo)
Questa statua, grazie ai poteri conferitigli da Virgilio – che come noto ai napoletani aveva anche fama di “mago” – sarebbe stata in grado di “sanare il dolor del ventre à tutti quei cavalli, che d’intorno li fussero stati raggirati“.
Per tale motivo la statua sarebbe stata distrutta nel 1322 dall’Arcivescovo di Napoli per porre termine alle superstizioni.
Secondo un’altra versione la distruzione sarebbe stata opera della congregazione dei maniscalchi, preoccupati per i danni che poteva arrecare alla loro attività.
In ogni caso, il bronzo sarebbe stato riutilizzato per fondere le campane del Duomo mentre la testa, unico pezzo rimasto integro, secoli dopo (e senza specificare dove sia stata nel frattempo!) sarebbe poi stata donata o venduta al Conte di Maddaloni, noto collezionista d’arte.
Questo racconto, forse alimentato anche dal Conte al quale faceva buon gioco di poter esibire un reperto classico di tale importanza, era già stato messo in dubbio a metà del ‘500 dal Vasari il quale attribuiva l’opera a Donatello: “una testa di cavallo di mano di Donato tanto bella che molti la credono antica”.
Finalmente a fine ‘800 fu ritrovato un documento datato 12 Luglio 1471 in cui proprio Diomede Carafa ringraziava Lorenzo il Magnifico per il dono ricevuto scrivendo che “ne resta tanto contento quanto de cosa havesse desiderata” e spiegando come l’avesse “ben locata in la sua casa che se vede de omne canto“.
La scoperta tagliava la testa al toro ma – come se non bastasse – più recentemente sono state ritrovate alcune lettere di Bartolomeo Ferragli, un Fiorentino che si occupava di reperire opere d’arte per conto di Ferrante, in cui vi sono chiari riferimenti a pagamenti effettuati per una grande fusione in bronzo che Donatello stava realizzando per il re Alfonso.
In definitiva, la versione accreditata oggi, è che questa testa sia la prima parte di una imponente statua equestre raffigurante Alfonso il Magnanimo commissionata a Donatello e che sarebbe dovuta essere inserita nell’Arco di Trionfo di Castel Nuovo.
L’artista toscano avrebbe preso a modello la testa in bronzo dorato (questa sì di origine ellenistica, essendo stata datata tra il II e il I sec. a.C.) proveniente da Roma e già nelle collezioni dei Medici prima del 1494. In effetti le due teste sono quasi indistinguibili: quella napoletana si riconosce facilmente perché manca del collare con targa (non originale), presente alla base di quella fiorentina, e per la presenza degli occhi…
L’opera poi non fu mai completata per la morte di Alfonso nel 1458 e di Donatello stesso nel 1466 ma di quale fosse il suo destino ce ne rimane una chiara traccia in uno dei primi bozzetti per il progetto dell’arco realizzati dal Pisanello.
Nel corso del tempo la scultura originale fu spostata dalla posizione iniziale, sulla parete destra del cortile (come si vede nell’incisione di A. Bulifon risalente alla fine del ‘600), a quella definitiva sulla facciata di fronte all’ingresso, proprio al di sotto del monumentale stemma aragonese (probabilmente prima della metà dell’800 come dimostra un disegno di Levenau), dove rimase fino al 1809.
In quella data l’ultimo erede della famiglia, il Principe Carafa di Colubrano, la donò al Museo Archeologico Nazionale, sostituendola con la copia in terracotta ancora oggi visibile.
Per approfondimenti:
- Antonio Summonte, “Historia Della Città E Regno Di Napoli – Vol. II”, A. Bulifon – Napoli, 1675
- Pompeo Sarnelli, “Guida de’ forestieri: curiosi di vedere, e d’intendere le cose più notabili della regal città di Napoli, e del suo amenissimo distretto. A spese di A.Bulifon”, G.Roselli – Napoli, 1685
- Biagio Aldimari, “Historia genealogica della famiglia Carafa a cura di A.Bulifon” G.Raillard – Napoli, 1691
- Carlo Celano, “Delle notitie del bello, dell’ antico, e del curioso della città di Napoli – Vol. 3”, G. Raillard – Napoli, 1692
- Gaetano Filangieri: “La testa del cavallo in bronzo già di Casa Maddaloni in Via Sedile di Nilo ora al Museo Nazionale di Napoli” in Archivio Storico per le Province napoletane (Vol. VII) – Napoli, 1882
- Giuseppe Ceci: “Il Palazzo Diomede Carafa” in Napoli Nobilissima (Vol. II, n. 10) – Napoli, 1893
- Tommaso Persico, “Diomede Carafa. Uomo di stato e scrittore del secolo XV”, L.Pierro – Napoli, 1899
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