Nei primi anni del suo regno Ferdinando I fu impegnato a contrastare i nobili che, disconoscendo la legittimità della sua successione ad Alfonso, preferirono appoggiare il tentativo di riconquista da parte di Giovanni d’Angiò.
Anche per tali motivi la monetazione, nel periodo tra la morte del padre (Giugno 1458) e la sua incoronazione (Febbraio del 1459), non presenta emissioni di rilievo: la moneta in argento per gli scambi maggiori rimase il Carlino, mentre per i commerci minuti erano comunemente adoperati Tornesi e Denari di biglione (una lega d’argento e rame).
Tutte queste monete erano una semplice riproposizione dei conî adoperati durante il regno di Alfonso: i Carlini furono progressivamente sostituiti dai Coronati solo dopo l’incoronazione, ed anche i Ducati d’oro iniziarono ad apparire solo dopo la legittimazione ufficiale, mentre i Cavalli in rame fecero la loro comparsa soltanto nel 1472.
Fino a quella data, dunque, gli acquisti di piccole merci e i salari più bassi erano saldati con i Tornesi e i Denari, già intrinsecamente di qualità inferiore alle altre monete.
Per far fronte alle ingenti spese militari, il sovrano aveva necessità di grandi quantità di denaro, che non poteva ottenere in tempi brevi ricorrendo – come d’abitudine – ai prestiti (che comunque avevano un interesse oscillante tra il 10 e il 20%). Quindi, intorno al 1460, dette ordine di emettere ingenti quantità di moneta a bassissimo tenore d’argento, e la scelta cadde principalmente sui Tornesi (non potendo o non volendo – anche per motivi di immagine e per non rovinare gli scambi verso l’esterno – deprezzare le monete di maggior pregio), che quindi persero ulteriormente di qualità ma a parità di valore nominale! Una vera e propria falsificazione di stato…
Come se non bastasse, oltre a dare mandato per la coniazione alle numerose zecche presenti nel regno (Napoli, Barletta, Gaeta, Salerno, Cosenza, Lecce, Capua ed Isernia), concesse facoltà di battere moneta anche ai privati, in cambio dell’anticipo delle somme che costoro avrebbero ricavato dall’attività, resa ancor più remunerativa dall’incontrollata riduzione della quantità di argento nella lega, a sua volta resa possibile proprio dagli accordi presi con il Re che – di fatto – garantivano loro una sorta di impunità per necessità.
In questo modo, mentre da una parte le casse del regno cominciarono a traboccare grazie alle plusvalenze realizzate, dall’altra le tasche del popolo si riempivano di moneta sempre più “vile”: quando la verità iniziò a diffondersi vi fu ovviamente malcontento e si crearono problemi ai commerci, ponendo le basi per la riforma del 1472 che sancì la nascita delle monete in rame (i Cavalli “Equitas Regni”).
Intanto, però, fu anche grazie alla larga diffusione di queste monete che Ferrante potè far fronte alle spese della guerra, che terminò soltanto nel 1465.
Il “picciolo” in questione è una monetina del diametro variabile tra 13 e 16 mm e con un peso oscillante tra i 50 e i 60 mg (con qualche esemplare superiore agli 80 mg), equivalente quindi al Denaro di Alfonso I.
Al retto è riportata l’effige generica del re seduto in trono con lo scettro e il globo crucigero, inscritto in un cerchio liscio o perlinato (in alcune varianti anche senza cerchio), nel medesimo stile che era già presente nelle monete Angioine e in numerosi conî di Alfonso I; al verso figura la croce potenziata.
Le legende erano piuttosto variabili: senza contare le diverse abbreviazioni, al retto può trovarsi “FERDINANDUS DEI GRATIA REX” O “DOMINUS MIHI ADJUTOR ET EGO DESPICIAM INIMICOS MEOS” (già presente nei Carlini di Alfonso I), mentre al verso le varianti conosciute sono “SICILIAE IERUSALEM UNGHERIAE”, “DEI GRATIA REX SICILIAE”, o di nuovo “FERDINANDUS D G R”
Quasi nessuna delle monete conosciute riporta – ovviamente – la sigla del Mastro zecchiere (tranne alcune con la B di Benedetto de Cotrullo, forse antecedenti al misfatto), né una qualche identificazione della zecca in cui è stata coniata (sembra tuttavia che quelle di Isernia siano riconoscibili perché venivano coniate addirittura senza un briciolo d’argento). Probabilmente perché nessuno aveva intenzione di prendersi la paternità di tali “patacche”!
In base alle combinazioni tra questi elementi, il Pannuti-Riccio distingue 6 varianti principali, mentre il Corpus Nummorum Italicorum ne elenca almeno 40. In generale, poiché furono man mano ritirate e sostituite dai Cavalli a partire dal 1472, sono da considerarsi monete “Non Comuni” e – in alcune varianti – “Rare” o “Rarissime”.
Nella moneta della mia collezione, visibile nella foto, si legge con difficoltà “FERDINANDUS : D : / SICILIE : IERUS :” e dovrebbe pertanto corrispondere alla “non comune” n.26 del Pannuti-Riccio.