Non si parla naturalmente di cani, ma di una delle più importanti monete battute durante il periodo aragonese!
I primi carlini, in realtà, furono emessi durante il regno di Carlo d’Angiò (da cui il nome) già nel 1278: ve n’erano d’oro e d’argento, ma solo quelli d’argento (detti “gigliati” per via dei fiori che ornavano la croce sul verso) erano ancora usati nel regno al momento della conquista di Alfonso I, e continuarono ad essere adoperati con questo nome a Napoli fino all’arrivo dei piemontesi.
Il sovrano aragonese continuò la tradizione, facendo coniare i suoi carlini (anche detti “alfonsini”) con la medesima lega d’argento dei precedenti, ma con un peso minore (tra i 3,60 e i 3,63gr invece di circa 4gr) per bilanciarne il valore rispetto alla moneta d’oro, che aveva acquisito il valore di un ducato e mezzo, e per la quale occorrevano ben 15 carlini; pertanto, con un titolo di 930/1000, il carlino di Alfonso conteneva circa 3,37gr di argento.
Alfonso mantenne al recto un tipo quasi identico a quello del carlino angioino, ovvero l’immagine del sovrano seduto su trono tra due protome di leoni, con scettro gigliato nella destra e globo crucigero nella sinistra; nel campo a sinistra del sovrano è possibile trovare la sigla dello zecchiere (abitualmente L, A, S, B o M), ma vi sono anche versioni prive di indicazione (vedi la moneta in basso).
Al verso invece si trovano le nuove insegne del Regno di Napoli: lo stemma angioino inquartato con i pali d’Aragona; Ne esistono varianti sia palate al 1° e al 4° quarto (vedi la moneta in alto) che al 2° e al 3° (vedi la moneta in basso).
Intorno all’immagine del sovrano sono riportate le parole del Salmo 117 “Dominus mihi adjutor, et ego despiciam inimicos meos”, variamente abbreviate nelle diverse emissioni, mentre intorno allo stemma la leggenda riporta “Alphonsus Dei Gratia Rex Aragonum, Siciliae Citra, Ultra Farum“, con una grandissima varietà per quanto riguarda le abbreviazioni (il Corpus Nummorum Italicorum riporta almeno 154 varianti di carlino!). Entrambe le epigrafi sono precedute da una croce e sono scritte in caratteri gotici (caratteristica non più presente nella monetazione di Ferdinando I) e le parole sono separate da due pallini o stelline.
Il mio esemplare (quello raffigurato in alto) riporta, rispettivamente “+ : DNS : M : ADIUT : ER : EGO : DE : I : M” con la S dello zecchiere Senier al recto (quindi databile tra il 1450 e il 1455), e “+ : ALFONSUS : D : G : R : ARAG : S : C : U : F : ” al verso, ed equivale ad un 3e del Pannuti-Riccio.
Il valore di un carlino equivaleva a circa 20 tornesi o 120 denari di biglione (una lega di rame, ferro e argento, sebbene in realtà questi ultimi andassero perdendo nel tempo la quantità nominale d’argento e pertanto il loro reale valore) e, quando successivamente furono introdotti da Ferdinando I, occorrevano 10/12 cavalli di rame per ottenere un carlino d’argento.
Per ottenere un “sesquiducato” (la moneta d’oro introdotta da Alfonso, del valore di un ducato e mezzo), infine, occorrevano 15 carlini d’argento.
Per comprendere meglio il reale potere d’acquisto di questa moneta, basti pensare che con 10 carlini (l’equivalente di un ducato d’oro) era possibile saldare il focatico, la tassa annua che gravava su ogni nucleo familiare (fuoco).
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