Francesco Pagano, Trittico di Sant’Omobono (1490-92 circa)
Olio su tela – Napoli, Museo di Capodimonte (mappa).
In origine presso l’oratorio dei Santi Michele e Omobono.
Da molti autori è indicata come una delle opere più intense realizzate a Napoli sul finire del ‘400 e certamente rappresenta uno dei momenti migliori, se non il culmine – anche per motivi cronologici – raggiunto dalla scuola napoletana di epoca aragonese.
L’attribuzione a Francesco Pagano è stata sancita da Ferdinando Bologna, in riferimento ai temi valenzano-ferraresi riscontrabili sia in questa opera che nella tela del Martirio di San Sebastiano, con la quale vi sono numerose altre analogie (si veda, ad esempio, il particolare dei decori e delle pieghe dei mantelli di San Michele e di Santa Caterina).
Le attribuzioni precedenti spaziavano da Angiolillo Roccaderame (artista mai documentato in realtà, e in seguito identificato con Angiolillo Arcuccio) a Riccardo Quartararo, da a Cristoforo Sacco e a un “anonimo pugliese”, ma la particolare embricatura tra il linguaggio valenzano-ferrarese e le nuove sfumature di natura umbro-romana, i cui tratti iniziano a manifestarsi alla fine del secolo con l’arrivo nella capitale di nuovi artisti dal nord, inducono a confermare la preferenza per un autore più tardo e dalle esperienze già più “continentali”.
Per quanto riguarda la data della sua realizzazione, il Bologna fa notare che – a causa della presenza delle insegne di Bonifacio VIII nell’inserto in cui è raffigurato Castel San’Angelo – essendo il pontefice deceduto nel Luglio del ’92, potrebbe essere questo il termine massimo per una datazione attendibile.
Questa datazione risulta comunque coerente con la elezione di questo dipinto a modello per altri autori che si cimentarono nello stesso soggetto prima della fine del secolo.
Tra questi uno dei migliori interprete fu probabilmente Cristoforo Faffeo, che tuttavia si limita ad eseguire poco più che una mera riproduzione dell’originale, senza avvicinarsi ai vertici ai quali assurse invece Paolo da San Leocadio (il quale ebbe modo di lavorare a stretto contatto con il Pagano agli affreschi della cattedrale di Valencia) con il suo San Michele che – benché realizzato per una lontana chiesa in Andalusia – dovette essere realizzato a Napoli in stretta contiguità con il modello di Pagano, con cui condivide l’accento posto sui toni naturalistici e sulla particolare ricerca dei rapporti di luce tra soggetto e paesaggio.
Più difficile risulta stabilire le relazioni con il S.Michele di autore ignoto che campeggia al centro della tavola tra i santi Girolamo e Giacomo della Marca, affiancati dai committenti (i coniugi Turbolo, che ordinarono la tavola – oggi a Capodimonte – per la loro cappella in S.Maria la Nova): è molto probabile che questa tavola – di accento marcatamente fiammingo (tanto da essere accostata al Memling) – fosse nota al Pagano, il quale ne trasse ispirazione per realizzare il paesaggio sullo sfondo (notare le caratteristiche rocce “stondate” che appaiono alla destra dell’arcangelo in entrambi i dipinti).
Per quanto riguarda l’armatura i risultati del Pagano sono senz’altro superiori a quelli del San Michele di S.Maria la Nova, e credo che si possono tranquillamente paragonare ai vertici raggiunti dal Memling nell’armatura del S.Michele (nella quale è riflesso l’intero paesaggio, con un albero in primo piano) nel Trittico del Giudizio Universale, che però il Pagano non ebbe modo di consultare in quanto l’opera fu realizzata in Olanda e subito dopo trafugata e portata a Danzica, dove è ancora visibile.
Rimane il dubbio che le strette analogie tra i due arcangeli derivino da un modello intermedio, che l’autore potrebbe aver visto nel corso dei suoi spostamenti tra Napoli e la Spagna: il Bologna, a tal proposito, non fa alcuna menzione all’autore fiammingo, ma – al contrario – sottolineando gli influssi ferraresi che condizionarono il Pagano in quegli anni, segnala sia l’uomo d’arme nel “Trionfo della Fama” nella Cappella Bentivoglio in S.Giacomo, che quello nella Pala de’ Rossi in San Petronio a Bologna, entrambi di Lorenzo Costa.
Tuttavia, al di là delle somiglianze nel disegno della “corazza” evidenziate dal Bologna (e in fondo la fattura delle armature dell’epoca era quella!) la ricerca sulla luce e sui riflessi svolta dal Pagano mi sembrano piuttosto di derivazione fiamminga.
Il Bologna insiste ancora sul raffronto con il Costa (evocando naturalmente echi antonelliani) nell’analisi del volto di S.Omobono, e qui non si può che concordare con lui se si osservano il ritratto di Giovanni Bentivoglio degli Uffizi e il San Girolamo ritratto nella Pala Rossi seduto a destra del soldato…
Infine, aggiungo due particolari che mostrano, oltre l’ottima capacità tecnica, anche la grande attenzione dell’autore per il “dettaglio”, che in questo caso particolare non trova paragone in alcuna delle opere coeve che abbiamo analizzato!
Il committente dell’opera fu evidentemente la confraternita napoletana dei sarti, di cui Omobono era il Santo Patrono, cresciuta di importanza già dalla metà del XIV secolo, fino a diventare vero e proprio caposcuola dell’arte sartoriale grazie alle importanti committenze della corte aragonese.
L’oratorio dei Santi Michele e Omobono, sul cui altare faceva bella mostra la pala, si trova proprio di fianco alla Chiesa di S.Maria delle Grazie a Caponapoli e ne condivide il triste destino fatto di incuria e abbandono, come documentato da questa immagine…
Per approfondimenti:
- Francesco Pagano su Wikipedia
- Ferdinando Bologna, “Napoli e le rotte mediterranee della pittura, da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico”, Napoli, 1977
- Francesco Abbate, “Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Vol.2: il Sud angioino e aragonese“, Donzelli, 1998