In attesa della conquista della città di Napoli, Alfonso d’Aragona nel 1436 stabilì la sua corte a Gaeta e – sicuro del successo della sua azione – iniziò subito a battere moneta come “Re di Aragona e di Sicilia Citra e Ultra Faro per grazia di Dio”. Era dal tempo dei vespri siciliani che i due regni non venivano riuniti sotto la stessa corona, e poco importa che questa fosse una corona straniera: in realtà Alfonso dedicò a questa impresa quasi tutta la vita e dimorò lungamente a Napoli, dando origine a una sia pur breve dinastia dalle caratteristiche assolutamente autonome, tanto da potersi considerare napoletano ad honorem!
La prima e più importante moneta emessa in questo periodo naturalmente fu quella d’oro, del valore nominale uguale a quello del Saluto angioino, detta Alfonsino o anche Ducatone o Sesquiducato, perché corrispondente al valore di un ducato e mezzo ovvero 15 carlini d’argento. Si trattava ovviamente di una moneta dall’elevato intento celebrativo, e l’importanza politica prima ancora che economica dell’emissione doveva essere ben evidenziata dalla qualità dell’immagine scelta per ornare il campo sul diritto: mentre per i carlini d’argento fu mantenuto un tipo sostanzialmente identico a quello delle precedenti monete angioine, per l’emissione aurea fu scelta un’effige ad hoc, il cui conio fu realizzato da un orafo milanese di nome Paolo di Roma sotto la direzione del Maestro di Zecca Guido de Antonio, argenter del Senyor Rey e mestre de fer moneda.
E in effetti siamo di fronte ad una delle monete tardo gotiche più belle in assoluto! Come se non bastasse, a garantire ancora più valore a questa emissione ci sarebbe l’evidenza riferita dal Summonte – che riprende la narrazione del Pontano, il quale era stato incaricato di custodire in prima persona i tesori del Santuario dopo la battaglia di Troia – secondo il quale l’oro adoperato per le prime emissioni sarebbe addirittura quello della statua di San Michele Arcangelo nel Santuario del Gargano; a sua volta tale statua sarebbe stata ricavata dal fonte battesimale nel quale era stato battezzato il Re Carlo III.
Temendo che la statua cadesse in mani nemiche, Alfonso l’avrebbe requisita, sostituendola tempo dopo con altra di pari valore ma realizzata in argento (quindi necessariamente molto più grande dell’originale!). Per chiudere il ciclo, tale statua sarebbe a sua volta servita a Ferdinando I per ricavarci l’argento per coniare i Coronati dell’Angelo necessari a sostenere la campagna di guerra contro Giovanni d’Angiò!
Tuttavia, secondo lo storico Domenico de Lello, che ne scrive in una cronaca della fine del XV secolo, le prime emissioni furono realizzate con oro proveniente da dobloni spagnoli mentre per le successive si adoperò l’oro ricavato dalla vendita di grandi quantità di grano in Africa.
L’Alfonsino fu poi coniato anche nella zecca di Napoli, a partire dal 30 Ottobre 1442 (la prima emissione contava ben 943 pezzi ricavati, secondo un calcolo approssimativo, da almeno 5kg d’oro); purtroppo sulle monete non esistono segni identificativi per distinguere le due emissioni, fatta salva l’assenza della sigla del Maestro di Zecca in quelli di Gaeta (che tuttavia manca anche in alcuni di quelli che potrebbero essere stati coniati a Napoli) .
Il Corpus Nummorum Italicorum ne individua almeno 52 varianti, ma secondo il Pannuti Riccio se ne possono distinguere due tipologie principali: una con modulo largo (circa 37mm) ed uno con modulo più piccolo (tra 27 e 31mm). In entrambe, all’interno di un doppio cerchio lineare, vi figura al rovescio la splendida effige di Alfonso con cimiero a forma di drago e la mano destra sollevata a reggere una spada, mentre monta “alla brida” un destriero lanciato al galoppo e con la gualdrappa svolazzante; in alcuni conii della prima variante le zampe posteriori possono arrivare a toccare il bordo perlinato, mentre nella seconda variante la figura appare un po’ più piccola e tozza, con la spada decisamente più corta, ma il rilievo è leggermente più marcato. Al di sopra della groppa può essere presente la sigla B, S, M o P (rispettivamente per Jacobo Baboccio da Piperno, Francesco Senier, Salvatore Miraballo e Salvatore de Ponte).
Al diritto, meno appariscente ma non per questo meno importante, il nuovo stemma del Regno, con i pali di Aragona inquartati con il blasone di Napoli (interzato di Gerusalemme, Angiò e Ungheria; ma l’ordine può anche essere speculare): nella prima variante i pali sono al 1° e al 4° quarto, mentre nella seconda si trovano perlopiù al 2° e al 3° quarto (anche questa regola, tuttavia, sembra presentare qualche eccezione). Il peso varia tra i 5,09 e i 5,32 grammi.
In tutte le varianti le epigrafi – scritte in caratteri gotici tra due cerchi perlinati – sono uguali, salvo per la diversa abbreviazione e la presenza di uno o due pallini di varia forma tra le parole: al diritto troviamo la frase Alfonsus Dei Grazia Rex Aragona Sicilie Citra et Ultra Farum, intesa a ribadire l’unità e la composizione del nuovo regno, mentre al rovescio è riprodotta l’invocazione del Salmo 117 “Dominus mihi adjutor, et ego despiciam inimicos meos”, che si ritrova anche nei carlini d’argento. Entrambe le epigrafi sono in genere precedute da una piccola croce di foggia e dimensioni variabili.
Nella foto in basso è visibile l’esemplare della mia collezione, classificato come P/R2 o MIR 53, con un peso di 5,26gr; Da notare l’ordine inverso delle casate (Ungheria, Angiò e Gerusalemme) nel blasone.
Per approfondire:
- Giovanni Gioviano Pontano, “De bello neapolitano” – Napoli, 1509
- Giovanni Antonio Summonte, “dell’Historia Della Città E Regno Di Napoli – Tomo III”, A. Bulifon – Napoli, 1675
- Ludovico Bianchini, “Della storia delle finanze del Regno di Napoli” – Volume II, Libro IV – Napoli, 1838
- Arturo G. Sambon, “Di alcune monete inedite di Alfonso I e Ferdinando I re di Napoli” in Rivista Italiana di Numismatica – Milano, 1892
- Memmo Cagiati, “Le monete del reame delle due sicilia, da Carlo I d’Angiò a Vittorio Emanuele II” – Tip. Melfi & Joele – Napoli, 1913
- Philip Grierson, Lucia Travaini, “Medieval European Coinage” – Volume 14 – Cambridge University Press, 1986